Mostra di Arrigo Musti al museo Guttuso Twist, intreccio di oblio e memoria nel mondo odierno.
Pubblicato il 27 dicembre 2019 • Comunicati
Riceviamo e Pubblichiamo:
La debolezza dell’arte contemporanea è quella di smarrire molto spesso la memoria. Si è soliti far arte in uno stravolgimento del tempo, che ridotto alla sola dimensione del presente, abolisce la storia, non raccogliendo nulla del passato, di quanto di esso rimane tuttavia impresso, per così dire, nel DNA della rimembranza. Questo accade perché ormai viviamo in un mondo che ci stradica dalla nostra terra e dall’antichità del suo passato. Questo nuovo mondo della contemporaneità è quello della rete globale, di internet e dei media, ma anche quello dei velocissimi mezzi di locomozione che scavalcano confini, territori, barriere spaziotemporali riducendo il tutto all’immediatezza realizzata dall’abolizione di ogni distanza sia di tempo che di luogo. In questo contesto l’arte muore perché non è più espressione del Genius Loci, di quell’humus particolare da cui si sono originate le diverse culture che sono durate millenni fino alla loro odierna scomparsa all’interno di un unico linguaggio internazionale che ne ha abolito le differenze.
Per comprendere appieno la pittura di Arrigo Musti questa premessa è necessaria, perché non comprenderemmo nulla di essa se non si prestasse anche attenzione al pathos, alla nostalgia del passato espressa in opere che ci parlano della “fuga degli dei”.
Già perché da molto tempo ormai gli dei sono fuggiti, avendo lasciato di loro dietro di sé simulacri, le cui immagini sempre più sbiadite sono corrose dall’usura del tempo. Senza anima questi simulacri sopravvivono in una eternità, offuscata però dalla contemporaneità. Questi simulacri sono spoglie divine. Noi ne intuiamo la sacralità pur in un tempo che ha decretato la fine del sacro e la morte degli dei. Esse ci giungono da molto lontano e tuttavia da un presente ricco delle loro tracce custodite all’interno dei nostri musei.
Queste immagini di statue sono percepite però fantasmaticamente provenendo dal mondo immemore di quando gli uomini abitavano nelle loro terre insieme con gli dei.
Nella memoria degli uomini tali immagini sopravvivono dunque come antichi fantasmi logori dai troppi, molti anni trascorsi nell’oblio, nella dimenticanza.
Esse pertanto, a causa di questo oblio, hanno perduto la loro chiara figura, i loro precisi contorni.
E’ difficile anche definirle sagome. Esse vivono come in un’ecclissi, in una sorta di presenza-assenza.
Ed è questo il tema ricorrente delle opere di Musti, dove l’indicibile, l’impalpabile, l’inafferrabile diventa il vero leitmotiv. Infatti queste immagini di idoli assai sfocate nel nostro attuale campo visivo, ci parlano dell’irrimediabilmente altro, che non può ritornare a vivere, a reincarnarsi nella nostra contemporaneità.
Esse per noi sono perdute per sempre seppure della loro antica esistenza serbano qualche traccia, come un rimosso non del tutto cancellabile e che dal fondo ormai oscurato della coscienza tende a venire, mai tuttavia pienamente, in superfice, nella chiarità, nella luce del conscio.
Da qui l’ossessione di una riemersione del rimosso in quanto tale, della riemersione di un passato desacralizzato, che pur non riesce a rinascere (come potrebbe dati i tempi?), a prender forma in tutta la sua antica imponenza.
Eppure l’ombra degli dei, degli dei obliati, attraverso queste immagini molto sfocate e sommerse, si proietta nel nostro freddo presente in maniera tale che essa rimane da sottofondo, sempre pronta quasi a un voler prendere una consistenza che non sia soltanto quella evanescente dei sogni.
Musti gioca da artista su questo registro. Il suo non far mai affiorare del tutto le immagini delle statue, che pertanto rimangono irrimediabilmente sommerse nella loro appartenenza al passato e dunque nella loro estraneità al presente, che di esse percepisce i logori fantasmi, fa parte della sua avvincente poetica di solo accennare all’indicibilità del sacro, che si sottrae all’orizzonte dell’uomo moderno, che non può più possederne il senso.
Da qui l’intreccio inestricabile tra passato e presente, tra oblio e memoria, tra eternità del divino e la sua devastante perdita, erosione.
Twist (l’intreccio) vuol farsi rappresentazione simultanea di diversi piani del tempo, dell’antico passato, della sua storia e dell’attuale smemoratezza.
Questo intreccio è dato dal non poter sfuggire al nostro presente, che seppur ci vota all’oblio pure in questo stesso oblio ci lega al rimosso, che non può non riapparire come da un sottofondo.
Per questo noi asseriamo che nell’arte di Musti si può assistere ad una sorta di svelamento dove tuttavia il velato si mostra in quanto tale, ossia senza che il velo sia del tutto tolto.
Il velato è propriamente il fantasma e grazie all’arte di Musti esso si mostra a noi nelle notte, nell’ecclissi del sacro.
In questa nostra epoca di soffocante materialismo, l’artista ci induce a delle visioni del “deus absconditus”, del dio o degli dei che si mostrano ormai solo nella dimensione del sommerso, come se non ci fosse, nella nostra assenza di spiritualità, più speranza per loro, le cui ombre sono condannate a restare tali in un sottobosco fitto di colori, che le ricoprono interamente.
Questo sottobosco è la pittura di Musti, che come fosse fitta vegetazione ricopre le statue fino a farle quasi scomparire del tutto.
Questa pittura (degli smalti) quasi fosse un arabescato che a volte richiama quello di tappeti orientali è stesa su fredde lastre di alluminio, che la supportano. L’effetto non è quello di una pittura a sangue freddo.
La pittura di Musti è una mescolanza di luci e di colori come se essa fosse buttata su specchi o delle vetrate.
E con esse è ad antiche vetrate di gotiche cattedrali che va il nostro pensiero pure se tali opere sono impreziosite di vecchi merletti. In questa loro peculiarità esse sembrano riesumare anche le tele seicentesche soprattutto fiamminghe in cui si dipingevano anche finissimi pizzi.
Twist è intreccio non solo di passato e presente ma di modelli e motivi culturali eterogenei, tutti però finalizzati a far da cornice a quell’eclisse del sacro che il nostro tempo con la fuga degli dei registra.
Piero Montana